Quest’anno compiono cent’anni due monumenti della cinematografia mondiale: “La corazzata Potëmkin”, del regista sovietico Sergej Ėjzenštejn e “La febbre dell’oro” di Charles Chaplin. Difficili da ricordare se non, avendo una certa età, per fantozziana memoria o perché rimando al cinema comico muto. In entrambi i casi mi verrebbe da (sor)ridere. Sensazione non diversa da quella che provo quando penso che con loro festeggiamo anche il Regio Decreto Legge n. 2033. Ancora oggi il caposaldo del quadro normativo italiano riguardante i formaggi. Ma anche della demagogia che “permea” la discussione intorno alla possibilità di immaginare un nuovo quadro normativo per le produzioni casearie generiche, non DOP. Un dibattito che quasi sempre rimanda all’altro totem rappresentato dalla Legge n. 138 del 1974. Che, come noto, vieta l’utilizzo di latte in polvere per produrre formaggi.
Metti insieme il Regio Decreto e la più (!) recente Legge, e l’argomentare finisce quasi sempre in slogan tipo… “dagli all’untore latte in polvere” (straniero), “no ai formaggi senza latte”. Magari indicando l’UE come chi vuole mettere a repentaglio la reputazione casearia italiana, magari quella DOP. Perché associare i formaggi DOP al latte in polvere (e alla lobby industriale) ha un miglior effetto mediatico, soprattutto nel confondere le idee.
Di che cosa dovremmo parlare? Di produzioni casearie generiche (ripeto non DOP) caratterizzate nel mondo da una continua evoluzione di processo e prodotto. Di formaggi per i quali si agita però solo spettro dell’uso di derivati lattieri essiccati esteri limitando la discussione alla sola, seppur importante, etichettatura d’origine. Quando è noto (a tutti i livelli) che per alcuni tipi di formaggi generici vengono da tempo utilizzate anche (tecnologie e) materie prime lattiere in qualche modo non strettamente conformi al dettato del presente quadro normativo. O senza sapere che per alcuni di questi derivati non esistono nemmeno (o sono scarsamente efficaci) dati per quantificarne i livelli di importazione o, peggio, strumenti analitici per rilevare il loro impiego nei prodotti caseari finiti.
Dal 1925, la ricerca scientifica ha reso disponibili incredibili tecnologie di processo e derivati del latte dalle molteplici potenzialità funzionali e quindi applicative. La discussione dovrebbe, almeno una volta, partire dagli aspetti tecnici connessi all’utilizzo di derivati del latte in caseificazione, soprattutto in relazione al loro reale impatto sulla qualità finale dei prodotti e sulla competitività delle aziende. Discussione che, in altri Paesi UE, ha da tempo indirizzato la legislazione nazionale nel comparto dei formaggi generici. Non in Italia, dove le poche norme, obsolete non solo in termini anagrafici, sono state spesso “interpretate” in vari modi dagli operatori del settore, ma anche dai Ministeri che a vario titolo avevano “competenza” in materia.
Di certo, una normativa frammentaria o contrastante crea se non illeciti, sicuramente equivoci, concorrenza sleale e limita fortemente l’efficacia dei controlli. Da qui bisognerebbe partire per un dibattito più sereno. La dogmatica difesa dell’attuale quadro normativo non crea i migliori presupposti per farlo.